Cittadini e istituzioni
Occorre un’Italia “più capace di prendersi cura, a partire dai bisogni essenziali ma non limitandosi a quelli, nella prospettiva della ricostruzione dei legami, delle storie personali e familiari, delle comunità territoriali” (Frigo).

Istituzioni e cittadini oggi in italia - prof. Giuseppe Dalla Torre

1. Diffidenza per le istituzioni ma senso civico?

Si è sempre detto che gli italiani sarebbero caratterizzati, tra l’altro, da scarso senso civico e l’osservazione quotidiana dello svolgersi della vita nel nostro Paese sembrerebbe dare, spesso, una indiscutibile conferma dell’assunto.
Si tratta di un assunto che è tanto risalente nel tempo e radicato, del quale sono state date diverse motivazioni. Una di queste, e certamente tra le più ricorrenti, consiste nel ritenere che da noi la cittadinanza sarebbe debole in ragione delle radicate convinzioni cattoliche. L’Italia, in altre parole, non avendo conosciuto la Riforma

protestante, non sarebbe stata in qualche modo temprata dall’alto senso di eticità e di rigore che, altrove, avrebbero forgiato una cittadinanza forte ed un forte senso di fedeltà alle istituzioni pubbliche.
A ben vedere si tratta di una argomentazione che però non è esente da critiche sul piano storico così come sul piano teoretico. Sul piano storico, perché quello della mancanza – o della debolezza – di senso civico è fenomeno che non si riscontra in pari modo in altri Paesi di tradizione cattolica, come la Francia, la Spagna, l’Irlanda, il Belgio o l’Austria. Sul piano teoretico, perché è da domandarsi se veramente il cattolicesimo sia antagonista delle istituzioni politiche. In effetti nella famosa pagina evangelica del tributo è comunque detto che bisogna dare a Cesare ciò che gli spetta; da parte sua nella Lettera ai Romani Paolo insiste sul dovere dei cristiani di obbedire alla legittima autorità, mentre nella prima Lettera di Pietro si esortano i credenti all’obbedienza alle autorità costituite. A sua volta la teologia morale cattolica insegna che le leggi civili giuste obbligano in coscienza.
Dunque dal punto di vista teoretico, rovesciando l’assunto da cui si è partiti, è da domandarsi piuttosto se la affermata debolezza della cittadinanza nel nostro Paese non sia addebitabile al fatto che gli italiani sarebbero in fondo poco cattolici o, meglio, sarebbero cattolici superficiali e di tradizione.
D’altra parte l’addebitare al cattolicesimo il deficit di senso civico degli italiani contrasta con la tesi, di ben maggiore spessore storico-culturale, che imputa più in generale ai cristiani di non avere senso dello Stato, essendo dal testo sacro chiamati ad obbedire a Dio piuttosto che a Cesare. Uomini di pensiero come Machiavelli, Hobbes, Rousseau, hanno veduto nel principio dualista cristiano, secondo cui bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, ma a Dio quel che è di Dio, una grave minaccia al potere politico, un indebolimento dell’istituzione statale; in particolare vi hanno visto una minaccia a quella concezione dello Stato moderno, secondo cui alla sovranità unica dello Stato deve corrispondere una società unitaria; ad un’unica autorità, quella politica, un’unica cittadinanza ed un’unica soggezione.
In questa sede pare meglio non addentrarsi in una questione complessa, fermandosi all’assunto da cui si è partiti. Assunto che però parrebbe essere quantomeno messo in dubbio da un recente sondaggio pubblicato da Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera.
Secondo l’analista, il sondaggio confermerebbe solo in parte lo stereotipo dell’Italia come Paese caratterizzato da un limitato senso civico, nel quale i cittadini antepongono le istanze personali e familiari a quelle della società e si mostrano più propensi a rivendicare i diritti che a riconoscere i propri doveri. Scrive Pagnoncelli: “In realtà l’individualismo e il familismo coesistono con un volontariato largamente diffuso nel nostro Paese. Basti pensare che una persona su due ha avuto occasione di svolgerlo negli ultimi anni: il 15% continua a svolgerlo regolarmente, il 24% saltuariamente e l’11% lo ha fatto in passato ma ora non più. Le attività sono maggiormente concentrate nei servizi alla persona (59%), nell’ambiente (33%) e nella cultura (27%)”. Annota ancora Pagnoncelli che “volontariato e attenzione all’ambiente sono giudicati espressione del senso civico, un senso civico «all’italiana» che trae origine più dai valori individuali (78%) che dal rispetto per la comunità nella quale si risiede (48%) o, men che meno, dalla fiducia nelle istituzioni (24%). Un senso civico che, secondo i nostri connazionali, non viene certo stimolato dalla politica: solo una ristretta minoranza ritiene che il governo (18%), il Parlamento (17%) o i partiti (14%) favoriscano la diffusione del civismo tra i cittadini. E non fanno bella figura neppure i mass media, si salva solo la scuola (58%)”.
Insomma: da noi, a fronte di una “diffidenza verso gli altri (le istituzioni, la classe dirigente e gli stessi connazionali)”, diffidenza che è certificata dall’indagine, “emerge un senso civico «fai da te», originato da aspetti etici e da quanto si apprende in famiglia e a scuola”.
Da queste ultime annotazioni si potrebbero già sviluppare delle riflessioni sul ruolo delle tradizionali agenzie educative nello sviluppo del civismo, così come sul retrostante sussistere di una cultura cattolica che continua a fornire riferimenti di carattere etico.
Qui però interessa osservare che questa inattesa scoperta della sussistenza di un certo senso civico si collega, però, alla diffidenza degli italiani nei confronti delle istituzioni. L’impegno volontaristico, animato da sensi di solidarietà, è effetto delle inadempienze dello Stato generalmente inteso, delle disattenzioni della politica per le necessità delle persone e del territorio, del senso di lontananza e disinteresse delle istituzioni. In definitiva è un senso civico che scaturisce non da una relazione tra istituzioni e cittadini declinata fisiologicamente in termini di sussidiarietà, ma da una sussidiarietà che nasce da un rapporto patologico con le istituzioni. Si tratta, tra l’altro, di espressioni di una sussidiarietà che generalmente non viene neppure aiutata, o è aiutata nelle degenerazioni che fenomeni delinquenziali come quello della cosiddetta “mafia di Roma capitale” ha messo in luce.

2. Ragioni storiche di un fenomeno
Sarebbe interessante indagare le ragioni storiche di un fenomeno come quello che si è sommariamente descritto. È pensabile che si tratta di ragioni molteplici e diverse, antiche e recenti, che in qualche modo hanno segnato, nel divenire della storia, i caratteri e la cultura di un popolo.
In questa sede si può solo accennare a qualche ipotesi.
Una prima è risalente nel tempo, nel senso che a differenza di grandi Paesi quali la Francia e la Spagna, l’Italia non è mai stata caratterizzata da forti istituzioni centrali. Il centro-nord è stato segnato dalla esperienza dei comuni con in lontananza, più simbolo che realtà di potere, l’impero; per giunta l’impero è stato inteso piuttosto come antagonista. Il sud, d’altro canto, è stato contraddistinto dal feudo e dalle grandi proprietà ecclesiastiche, da poteri anche qui lontani ed abbastanza assenti, che hanno radicato la gente nelle piccole comunità locali ed al territorio. Le istituzioni centrali sono sempre state percepite come distanti o, addirittura, come avverse.
Una seconda ipotesi è storicamente più vicina, tocca la storia contemporanea. L’unità d’Italia non fu un moto spontaneo, popolare, di massa, ma il processo attivato e governato daélites culturali, politico-militari, già di per sé – nella stratificazione sociale in classi della società di allora – molto distanti dalla gente. Le masse furono assenti, come dimostrano eloquentemente i vari plebisciti che segnarono le successive acquisizioni territoriali del Regno di Sardegna. Del resto per molti aspetti il Risorgimento, più che un processo di unificazione fu un processo di annessione, con comprensibili effetti sulla cultura della gente, soprattutto del sud, verso lo Stato e le sue istituzioni. Basta rileggere le notissime pagine de I Malavoglia di Verga, certe novelle di Pirandello, lo stesso capolavoro di Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, per rendersi conto del distacco, e addirittura la diffidenza, tra cittadino ed istituzioni. Ma il distacco riaffiora, seppure involontariamente, anche da certe pagine di letteratura minore, come ad esempio quelle – peraltro piacevoli – de La vita militare di Edmondo De Amicis, nonostante il fatto che furono scritte come strumento di nazionalizzazione delle masse e come sostegno all’idea della coscrizione militare obbligatoria, concepita – insieme alla scuola – quale mezzo per formare gli italiani.
Se si passa poi alla vita dello Stato unitario, tra grandi momenti storici che lo caratterizzano, è pure possibile individuare fattori di alienazione dei cittadini dalle istituzioni. Evidente nel periodo liberale lo scollamento derivante dal contrasto Stato-Chiesa, che produsse, anche a seguito del non expedit, una sorta di secessione morale di una significativa porzione dei cittadini. Lo Stato e le istituzioni centrali furono percepite come nemici; la collaborazione alle istituzioni pubbliche negata; i sentimenti di partecipazione rivolti nella società con le note iniziative del cattolicesimo sociale.
La questione parve superata con l’avvento del fascismo. L’intuizione politica di Mussolini fu di rendersi conto che la debolezza dello Stato liberale, sostanzialmente morto per inedia interna (si pensi all’effimera esistenza degli ultimi governi liberali, che aprì le porte all’avventura fascista), era all’origine dovuta dal dissidio con la Chiesa e le masse cattoliche. L’agitatore e politico romagnolo si rese conto che Italia non si governa senza o contro i cattolici: di qui gli accordi del 1929. Ma il fascismo comprese anche che altri corpi separati nella società dovevano essere ricongiunti, non a caso la sua stessa denominazione stava ad indicare il fascio stretto tra realtà diverse, talora addirittura contrapposte nell’età liberale: i socialisti ed i proprietari terrieri, gli ex combattenti e reduci e i non interventisti, i cattolici e le minoranze, soprattutto gli ebrei.
E tuttavia il fascismo fallì nel progetto di avvicinare Stato e nazione, perché alla fine tra i due introdusse ed impose il partito, e perché sopravvenne progressivamente un’ideologia che mancava alle origini. E ogni ideologia, lo sappiamo, divide.
Nel complesso le istituzioni rimasero lontane, seppure con eccezioni, soprattutto nel campo socio-assistenziale (si pensi a istituzioni come l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, o all’Opera Nazionale Combattenti).
Nel terzo periodo, quello della Repubblica, di nuovo le cose sembravano dover cambiare. La Costituzione, nata non dal compromesso – non amo questa locuzione– ma dall’incontro tra diverse culture e ideologie, pareva espressione di una identità che si era venuta forgiando attraverso le sofferenze della guerra e degli ultimi bagliori della dittatura. Soprattutto nella sua prima parte, la nuova Carta fondamentale assumeva una serie di principi e di valori che certamente erano rintracciabili nel patrimonio genetico degli italiani, ed era sperabile che avesse una forza maieutica conformatrice del popolo.
Le cose non sono andate del tutto così: forse per un certo intellettualismo di cui la Carta è pure frutto; forse per il fatto che comunque una minoranza degli italiani, ma non trascurabile, non si riconobbe nel nuovo Stato e nella sua Costituzione; forse per il fatto che per troppo tempo istituzioni previste dalla Costituzione rimasero inattuate; forse per le modalità di attuazione stessa delle istituzioni in questione e per la loro deludente esperienza.
Il caso emblematico è dato dall’istituto regionale. Le Regioni a statuto ordinario rimasero sulla carta fino al 1970, poi ebbero progressiva attuazione, ma le ultime elezioni regionali, con il tracollo dell’affluenza che le ha contrassegnate, sono un chiarissimo segnale della disaffezione dei cittadini rispetto a queste istituzioni. Certo questo pericoloso segnale lanciato dall’elettorato è legato alla degenerazione della politica, al malaffare sempre più esteso, all’allargarsi sempre più, nei gangli vitali della pubblica amministrazione, delle metastasi mafiose; il cittadino percepisce dell’ente Regione più le inefficienze che i vantaggi concreti in termini di sicurezza di vita, di servizi assicurati, di opportunità offerte.
Come ha giustamente notato un apprezzato costituzionalista, Marco Olivetti, le Regioni a statuto ordinario hanno sempre avuto qualche problema di legittimazione, anche perché la circostanza che siano state disegnate nel 1948, ma attuate ventidue anni dopo, ha fatto sì che in quanto “enti pensati per un’Italia ancora agricola e proto-industriale siano state implementate dopo la più grande trasformazione che l’economia e la società italiana abbiano conosciuto nella loro storia (quella che, appunto, ha fatto dell’Italia una società terziarizzata del benessere nel ventennio successivo all’ultima guerra)”. Continua Olivetti: “La realizzazioni delle Regioni nel 1970, all’apice della Repubblica dei partiti e dell’espansione degli apparati statali, ne ha fatto un terminale di logiche politiche ed amministrative che avevano poco a che fare con l’autonomia. Così le Regioni si sono rivelate soprattutto strumenti di divisione dei poteri (consentendo al Pci di governare in periferia, mentre restava escluso dal governo al centro) e di clientelismo partitocratico, mettendo capo alla formazione di vasti apparati di governo, spesso (seppur non sempre) poco brillanti dl punto dell’efficienza”.
A queste derive dell’istituto regionale, che certo non è elemento marginale nella forma di Stato disegnata nella stando alla nostra Costituzione, sono estranee le Regioni a statuto speciale dell’arco alpino, le quali hanno però dalla loro parte una cultura delle popolazioni diversa, forgiata in altri contesti: si pensi in particolare alle ascendenze culturali asburgiche, che distinguono dalle altre le Regioni a statuto speciale del nord-est, anche per quanto attiene alla vicinanza delle istituzioni ai cittadini, e viceversa, configurando così la più alta forma di civismo registrabile nella penisola.
Cartina di tornasole e contrario il caso della Sicilia, la cui esperienza non si distacca – anzi – da quella delle Regioni a statuto ordinario e che non può vantare, nei secoli più vicini, influenze culturali eteronome come ad esempio quelle del Trentino. Il riferimento è scottante, se si pensa che l’istituto regionale fu pensato e voluto da don Luigi Sturzo, siciliano, che aveva dinnanzi agli occhi innanzitutto la realtà dell’isola e mirava così a portare le istituzioni vicino al cittadino, ricollegandoli.
Ma ulteriori segni contradditori è dato cogliere a livello locale. Negli anni Novanta del secolo che abbiamo alle spalle, vi fu la cosiddetta “rivoluzione dei sindaci”, che grazie all’elezione diretta sembrò segnare un avvicinamento delle istituzioni al cittadino. Come è stato acutamente notato, “vent’anni fa i sindaci rappresentarono una risposta dal basso alla crisi dello Stato dei partiti, picconato da Tangentopoli. La prima elezione diretta della storia d’Italia fece da valvola di sfogo all’antipolitica e la trasformò in un conato di rinnovamento, di rifondazione della politica. Oggi invece sono proprio i sindaci la prima trincea della crisi di uno Stato senza più partiti”. Insomma: “un quarto di secolo dopo la gente non pensa più che la storia si possa cambiare dalla periferia: quando il gioco si fa duro la partita si gioca nello Stato centrale, perché è di lì che passano quel poco di risorse e di decisioni ancora concesse alla sovranità nazionale”. E mentre “le istituzioni del decentramento sono tutte in crisi: le Province abolite, le Regioni screditate e disertate nelle urne, i Comuni sotto la sferza dei giudici e del malcontento”, anche “l’antipolitica si è ri-nazionalizzata, e oggi si chiama Grillo, o Salvini”.
Ma d’altra parte, in ragione dei galoppanti processi di globalizzazione che toccano vari aspetti della vita, il ravvivarsi dei localismi, seppure talora in forme antistoriche e con motivi maldestri, segna una sorta di reazione in difesa della psicologia individuale e collettiva contro i pericoli della perdita di identità in una sorta di grande omogeneizzato universale.

3. Città e cittadinanza
Ha scritto Italo Calvino, nel suo Le città invisibili, che “di una città non godi le 7 o le 77 meraviglie ma la risposta che dà alla tua domanda”. Si tratta di una espressione che lascia pensare a proposito del rapporto tra istituzioni e cittadini. Nel senso che l’avvicinamento tra istituzioni e cittadini è sicuramente legato alla capacità delle prime di dare risposte alle domande di questi ultimi.
Il problema non è ovviamente riferibile solo all’istituzione che chiamiamo città o, più in generale, alle istituzioni cittadine. La città non esaurisce, anzi, la ben più articolata e complessa realtà delle istituzioni pubbliche.
Ma la prossimità della città al cittadino, la molteplicità di competenze che l’ordinamento assegna al governo cittadino, sono fattori che rendono particolarmente importante il riferimento a questa struttura essenziale del governo italiano. Del resto da noi la città, per diversi fattori storico-culturali, può contare in linea di principio in una potenzialità di favore sconosciuta ad altre istituzioni. Il cittadino francese si sente prima francese, poi parigino, di Tolosa o di Marsiglia; viceversa l’italiano, che si sente prima veneziano, milanese, romano o palermitano, e poi italiano.
Anche il lessico tradisce le origini di tale favore e l’accennato primato del senso di appartenenza. Oltralpe, all’entità territoriale di governo si dà il nome di Municipalité, temine che etimologicamente (munus capere) mette in evidenza la dimensione di autorità, di potere, di funzione pubblica; da noi viceversa il termine Municipio indica il luogo materiale che ospita il governo locale, addita l’edificio del Comune, espressione che però fa riferimento alla comunità politica, cioè al gruppo umano organizzato che si autogestisce. In qualche modo si intravvedono in tale concezione, quasi in trasparenza, i riflessi di quella cultura greca che modellava la koiné mediterranea, per la quale nell’Antigone Emone ricordava a Creonte che “una città che è di un solo uomo non è una città”.
Ma, a prescindere dalle considerazioni già più sopra svolte, questa posizione di partenza favorevole della città, e quindi delle sue istituzioni, se non è riscontrabile ovunque, è oggi messa in pericolo da più fattori.
Anche qui non è il caso di entrare in una analisi compiuta e dettagliata, che spetta ai sociologi, ed in particolare ai sociologi urbani di fare. Si possono però menzionare, per spunti e frammenti, alcuni aspetti, quasi tessere di un mosaico più ampio.
Si pensi, ad esempio, al processo di invecchiamento della popolazione; alle modificazioni e pluralizzazioni del paradigma familiare; all’aumento demografico non endogeno, ma nascente dal fenomeno immigratorio; al pluralismo sempre più accentuato dal punto di vista culturale e religioso che questo comporta; alle trasformazioni e precarizzazioni del lavoro; alla nascita di nuove povertà conseguenti ad una crisi economica prolungata ed ancora dagli esiti incerti; alla divaricazione progressiva delle condizioni tra categorie sociali estreme, con il rilevato effetto di una rarefazione – fino a minacciarne l’estinzione – di quel “ceto medio” che era caratteristica dell’Italia negli anni del grande boom economico e sociale.
Insomma: come hanno notato gli studiosi dei fenomeni sociali, l’effetto di questo e di altri fattori è la disarticolazione del sistema sociale.
Considerato da altro punto di vista, si può dire che questi processi provocano un progressivo allentamento dei collanti che fanno di una popolazione un popolo, cioè una comunità umana organizzata che dà vita a istituzioni aventi una funzione servente alla comunità stessa. Se la si guarda da un certo angolo di visuale, la società politica si indebolisce sempre più, nella misura in cui si allentano i vincoli giuridici di appartenenza (societas è termine che viene da socius, vale a dire essere parte non passiva, ma attiva); di qui l’estraneità crescente dei cittadini dalle istituzioni pubbliche, che sono la forma giuridica della societas. Se la si guarda sotto altro profilo, vale a dire non quello giuridico ma quello etico-culturale, cioè se si considera l’insieme dei cittadini piuttosto come comunità politica, anziché come società politica, la debolezza progressiva dello stare insieme segue la crescente rarefazione dei valori condivisi che tengono uniti, i valori comuni che forgiano la communitas.
Da questo punto di vista non sono affatto contraddittorie le risultanze dell’indagine sopra menzionata, laddove da un lato fanno luce sulle disaffezioni degli italiani verso le istituzioni, dall’altro mostrano il permanere di un atteggiamento per cui le istanze personali e familiari sono anteposte a quelle della società.

4. Una democrazia debole
Le trasformazioni cui s’è fatto cenno non sono senza effetti sulla democrazia; in particolare su quella dimensione – essenziale – della democrazia, che è data dalla partecipazione ai processi decisionali delle pubbliche istituzioni.
La conseguenza più evidente si ha nel continuo calo – ancorché differentemente consistente, a seconda del tipo di consultazioni elettorali – della partecipazione al voto. Nel secondo dopoguerra, per molto tempo gli italiani si distinsero per l’altissima frequenza alle urne, dovuta a fattori vari: la realizzazione, solo con l’avvento della Repubblica, di un effettivo suffragio universale; la reazione alle pseudo consultazioni elettorali del regime; i riflessi interni della contrapposizione mondiale tra blocchi ideologici, con l’allarme per il pericolo comunista.
Ma, se ci si guarda intorno, sembra di dover cogliere una generale disaffezione dai momenti di partecipazione. Si pensi in molte città al declinare delle articolazioni municipali, quali le circoscrizioni o i municipi, come luoghi di avvicinamento al cittadino ed al territorio del confronto sulle scelte delle azioni da adottare e, conseguentemente, di maturazione di decisioni condivise. Ma si pensi, in tutt’altro ambito, alla sorte degli organi collegiali nella scuola, in cui l’effettiva incidenza della presenza dei genitori sembra aver progressivamente ceduto alla dominanza della classe docente. E prospettive non migliori parrebbero schiudersi con la configurazione dei presidi-manager, di cui alla riforma della scuola del Governo Renzi.
In più casi, organismi pensati per avvicinare il potere alla base, per facilitare la partecipazione dei cittadini alle decisioni di cui saranno poi i diretti destinatari, si sono rivelati nel tempo come nuove forme di burocratizzazione. Forme nuove ma vuote, retoriche, o talora paradossalmente anche più pesanti, se è vero che più è lontano il potere, più se ne percepiscono lievi gli impatti, e viceversa.
Ma la democrazia non si esaurisce nelle forme di partecipazione alla vita delle istituzioni politiche. Democrazia vuol dire anche partecipazione del cittadino alle forme di autogoverno, inteso come autorisposta alle nuove domande di servizi. Il riferimento è all’idea ed all’esperienza della sussidiarietà, intesa in questo caso non come distribuzione di competenze amministrative tra diversi livelli di governo territoriale (c.d. sussidiarietà verticale), ma come rapporto tra autorità e libertà qualificato dal fatto che i cittadini, organizzati nelle formazioni sociali che strutturano la società civile, provvedono direttamente al soddisfacimento di bisogni collettivi, laddove le istituzioni pubbliche intervengono in funzione sussidiaria di programmazione e coordinamento, ma se necessario anche di gestione (c.d. sussidiarietà orizzontale).
L’esperienza costituzionale mostra al riguardo un paradosso. È opinione comune, anche tra i costituzionalisti, che la per molti aspetti infelice riforma del Titolo V della Costituzione (c.d. riforma Bassanini), introdotta nel 2001, abbia finalmente inserito il principio di sussidiarietà orizzontale nel testo della Carta fondamentale. Ciò con riferimento al dettato dell’ultimo comma del riformato art. 118 Cost., per il quale “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
Si tratta di una opinione a mio avviso errata, perché il principio in questione era sicuramente nella cultura del costituente e sotteso forse, ma certo presente, nel testo costituzionale, a partire dal riconosciuto ruolo delle formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost. E sarebbe interessante comprendere se l’esigenza di specificarlo sia nata a causa di una sostanziale disapplicazione del principio nell’esperienza della c.d. prima Repubblica, caratterizzata nonostante il dettato costituzionale da forme di statalismo, centralismo e burocratismo.
Il paradosso è però che all’innovazione del 2001 non è seguito un rovesciamento delle prassi e, quindi, un diretto coinvolgimento dei cittadini nel soddisfacimento di interessi e bisogni collettivi, con intervento residuale delle istituzioni pubbliche. Perché la sussidiarietà, nel diritto vivente e nella concretezza dell’esperienza, è stata intesa in maniera rovesciata: non sono le istituzioni che intervengono laddove la società civile non si attiva o non è in grado, ma viceversa è quest’ultima ad intervenire nei casi – e non sono pochi – di inerzia o di inefficienza dell’intervento pubblico. E ciò, se contraddice radicalmente l’idea di sussidiarietà orizzontale, può d’altra parte essere stata una (con)causa della degenerazione criminosa del fenomeno del cosiddetto privato-sociale, come ancora da ultimo hanno messo in luce le squallide vicende di “mafia Capitale”.

5. Conclusioni
Nel concludere, ci si può porre la domanda se in Italia ci sia una cittadinanza debole, e quindi una relazione labile con le istituzioni, perché continua una separazione tra Stato e nazione.
L’interrogativo è stato recentemente suscitato dalla lettura di un articolo di Ernesto Galli della Loggia, nel quale era sostanzialmente l’invito a non identificare la comunità italiana con la forma di Stato che questa si è data dopo il 1946. Una analisi molto interessante ancorché discutibile, di carattere storico-culturale, il cui punto focale può individuarsi nel passaggio per cui “separare la Repubblica dalla Nazione ha il solo effetto di ridurre di molto la portata e la capacità inclusiva della prima, e dunque di indebolirla”.
È vero che l’esperienza storica di un Paese occidentale come gli Stati Uniti sembrerebbe dire il contrario, perché lì parrebbe convivere un forte senso di appartenenza alla comunità politica – dunque un senso di cittadinanza –, con un forte senso di appartenenza nazionale, come condivisione di caratteristiche comuni dal punto di vista etnico-culturale- religioso ecc.
Ogni italiano che sia stato negli Stati Uniti non come mero turista, ha potuto rendersi conto di quanto forte sia il senso identitario nazionale degli italo-americani, anche di terza o quarta generazione, che magari non parlano più italiano ma si sentono italiani e sono memori dei luoghi d’origine della famiglia. Lo stesso può dirsi, ad esempio, per la comunità cinese, filippina, o per la variegata realtà dei latinos.
Ma gli Stati Uniti costituiscono, da questo punto di vista un unicum, dovuto probabilmente alla originaria formazione per immigrazione del suo popolo; il tenersi insieme della sua comunità politica, nonostante i divisi sentimenti di cittadinanza ed appartenenza nazionale, è forse dovuto al fatto che la categoria dei bianchi anglo-sassoni protestanti (i cosiddetti wasp-White Anglo-Saxon Protestant) continua (ancora) ad essere dominante.
Forse, più che una separazione fra Stato e nazione, direi che nel caso italiano c’è una debolezza della nazione, che si riflette in una debole cittadinanza.
Le ragioni di tale debolezza sono facilmente rintracciabili nella nostra storia. Una di queste è più remota ed è da rinvenire, ancora una volta, nell’età risorgimentale. “Ora tutti Savoiardi sono! Ma io i savoiardi me li mangio col caffè, io!”, sbotta Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina, nell’indimenticabile Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Si tratta di una pagina letteraria che dipinge un processo di unificazione nazionale svoltosi – come altrove, per esempio in Germania – sull’idea romantica “una nazione-uno Stato”, ma che non teneva conto di una realtà italiana costituita da localismi dalle identità linguistiche, culturali, storiche assai accentuate, quasi a costituire tante “nazioni”. Non a caso Massimo d’Azeglio, ne I miei ricordi, poteva scrivere quel “Pur troppo s’è fatta l‘Italia, ma non si fanno gl’italiani”, da cui poi il noto detto.
Un’altra ragione della cennata debolezza, più recente, è probabilmente da individuarsi nella reazione all’esasperata pressione mitologica del fascismo sulla romanità, sull’italianità, sulla nazione, sulla patria: sembra essere bastato un ventennio per vedere cancellato quel senso che appartenenza nazionale che, seppur debolmente, l’età liberale aveva costruito a partire dalla scuola, dalla retorica di libri di lettura come Cuore e dall’impegno patriottico di insegnanti come la maestrina dalla penna rossa. Tant’è che il sentimento nazionale, con un conseguente effetto di coesione, parrebbe manifestarsi solo nelle grandi manifestazioni calcistiche internazionali, quanto sono impegnati gli azzurri.

Che fare?

Certo, favorire la rinascita di un forte senso di identità nazionale appare necessario in un momento in cui l’Italia, da Paese tradizionalmente di emigrazione è divenuto in poco tempo Paese di forte immigrazione, con gruppi umani di provenienza diversa e di differente portato culturale, etico e religioso. Quello della necessità di una identità forte in una realtà pluralistica, per affrontare pacificamente e dialogicamente il rapporto col diverso, è diventato da qualche anno un leitmotiv. L’assunto ha un nucleo di verità ma bisogna stare attenti a che non conduca nell’eccesso opposto di un’identità forte, ma che diviene strumento di respingimento e non di dialogo. Certe espressioni di accentuato localismo, di cui è quotidiana testimonianza nei mass-media, danno a pensare al riguardo.
Certamente è fondamentale un’ampia, intelligente, profonda opera educativa, che non può essere lasciata solo alla scuola. È necessario che tutte le agenzie educative, tradizionali e nuove, siano coinvolte in un’azione formativa ad una cittadinanza attiva e partecipe, che recuperi l’identità nazionale (ma quanto sono fievoli, oggi, il senso e la cultura storica!), e al tempo stesso valorizzi le culture e tradizioni “altre”, cercando di avvalorare quanto può unire rispetto a quanto distingue ed oppone.
Perché oggi, nelle nuove condizioni di un’Italia che si specchia in un mare, il Mediterraneo, che da barriera confinaria invalicabile è divenuto una sorta di autostrada a senso unico, il problema dei rapporti tra istituzioni e cittadini non si racchiude più soltanto nei termini tradizionali dei quali s’è discorso sin qui, ma anche ed ancor più nei termini nuovi posti dalle inedite forme di domanda che vengono dalla massa crescente dei nuovi cittadini: quelli che lo sono già, quelli che lo diverranno.
In questo senso una responsabilità importante incombe sulla Chiesa e sui cristiani, specialmente i fedeli laici. Occorre riprendere al riguardo l’insegnamento del Vaticano II, in particolare la cost. past. Sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, che indica tra le responsabilità dei credenti alla realizzazione di una comunità politica nella quale tutti abbiano una piena ed effettiva cittadinanza e l’impegno attivo nella collaborazione alla vita pubblica.